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Trento, 10 luglio 2013
Quando una fabbrica chiude
Dopo la Grundig, la Subaru, la Manifattura Tabacchi, la Marangoni, la Michelin,
ora la Whirpool
articolo di Lucia Coppola, in uscita sui quotidiani

Che cosa succede nel cuore di una città quando una fabbrica chiude? Si spezza per molti il sogno di trovare nella dignità del lavoro la risposta al  bisogno di sopravvivenza, di provvedere alla propria famiglia.

Ma si rompe anche un equilibrio prezioso, quello che permette ad una società di restare sana, coesa nelle sue parti, rispettosa di ruoli, mansioni, competenze, funzioni. Una fabbrica, se costruita per le persone e non (solo) per il profitto di pochi, è un luogo di cultura, socializzazione, espressione di diritti, benessere diffuso. Può e deve diventare anche il luogo nel quale salute e lavoro si possono incontrare e non entrare in rotta di collisione.

Ricordo quando sorse la Ignis, poi Iret, poi Whirpool, a Trento, perché ci lavoravano mio marito e alcuni dei miei amici. Perché all'epoca fu un evento per i tanti che, abbandonati i paesi e le valli, la cultura contadina e le case con gli orti, si trasferirono a Trento. Lo fecero soprattutto per regalare opportunità nuove, di studio ed emancipazione sociale, ai loro figli.

Alcune, tante, erano donne, ragazze che si affacciavano timidamente al mercato del lavoro ma lo facevano con convinzione, nella speranza di migliori prospettive di vita. A parità di lavoro percepivano salari ridotti e assumerle diventava conveniente per le aziende. Le necessità delle giovani famiglie, i nuovi bisogni indotti dalla vita cittadina, l'acquisto di un auto, gli elettrodomestici, l'apertura di un mutuo richiedevano ormai un secondo reddito. I giovani, dal canto loro, avvertivano fortemente il richiamo della città.

Ricordo i cortei  e le manifestazioni, lo Statuto dei Lavoratori e “l'operaio massa” che rivendicava tempi, modi, luoghi di lavoro più umani. La catena di montaggio diventò il simbolo delle nuove fabbriche, più tecnologiche e avanzate, con la mensa aziendale, i circoli, la solidarietà tra i lavoratori.

Ma significò anche estraneità dal processo produttivo, ripetitività dei gesti nei tempi definiti; la perdita della libertà nel lavoro, della creatività, della cultura materiale che aveva contraddistinto sino a quel momento i lavoratori. In fabbrica arrivarono però, finalmente, le rappresentanze sindacali che proteggevano da soprusi, portavano avanti rivendicazioni, alzavano il tiro dei diritti sul lavoro.

La Ignis si interfacciò con la nostra città con la forza dirompente di 1500 lavoratori e lavoratrici, fu terreno di scontro tra sigle sindacali, quelle unitarie, e quelle della destra padronale che riteneva strategica la nuova fabbrica nel panorama politico trentino e cercava di marcare, anche con la violenza, il territorio. La grande fabbrica divenne presto emblema di scontri e contrapposizioni, ma anche di relazione e confronto. 

Ricordo i volantinaggi, di mattina presto, nella periferia che allora sembrava così lontana; il discorrere di politica e di vita, il passaggio di saperi nuovi e antichi che arricchiva tutti: operai, studenti, semplici cittadini, e diede luogo, nel tempo, ai comitati di quartiere e alla stretta alleanza tra parti diversificate della società, tra intellettuali e lavoratori, tra donne e uomini. In un fervore innovativo che, pur tra mille contraddizioni, arricchì quel tempo e la sua storia.

Ora la vecchia Ignis, Iret, Whirpool, chiude. Lo ha fatto con una telefonata, fredda come l'oceano che ha attraversato, dall'altra parte del mondo: quel Michigan che per molti di noi è solo un puntino sullo scacchiere sempre più confuso delle multinazionali. Pellegrine del mondo alla ricerca di luoghi dove il costo del lavoro è inferiore, i salari sono sempre più bassi e gli orari degni del “padrone delle ferriere” di ottocentesca memoria (“se otto ore vi sembran poche...”cantava la canzone). Dove i diritti sono un optional.

Ora tocca a Trento. La vita delle persone, quasi 600 più l'indotto, e delle loro famiglie, è solo un incidente di percorso che si cancella con un semplice tratto di penna: via lo stabilimento Whirpool. Ci spiace.

La collettività trentina ha speso 45 milioni di euro non più tardi di 6 anni fa per comprare il sito e i muri dell'azienda, è vero, il lavoro non manca, gli operai e le operaie lo svolgono al meglio, la produzione è di buon livello ma... la materia prima è troppo costosa, il mercato nel settore degli elettrodomestici è fermo. Grazie e arrivederci: in Bangladesh, in Polonia, in Lombardia.

Qualcuno ha parlato di tragedia annunciata e certo i 100 esuberi dichiarati nel 2011 non facevano sperare niente di buono. Averli ridotti a 70 ed essersi seduti ad aspettare non è stata forse una mossa vincente: le premesse erano tali da far prevedere esiti funesti.

Che cosa poteva fare l'ente pubblico, che in questi anni ha sovvenzionato fabbriche ingrate e ingenerose che, arraffato il malloppo, hanno serenamente chiuso i battenti?

Penso alla Grundig, alla Subaru recentemente, alla Manifattura Tabacchi, alla Marangoni, alla gloriosa Michelin che doveva diventare il luogo della memoria della fatica e delle lotte operaie, e si è trasformata nell'ennesima, se pur blasonata, lottizzazione.

Io credo che la nostra provincia, abbandonata la logica dei contributi “salvataggio” di tutte le emergenze industriali, non debba più cedere al ricatto di queste inaccettabili, dolorose chiusure. Che debba pretendere il rispetto dei patti, il rientro di capitali che non sono stati spesi al servizio dei lavoratori ma usati per investimenti in altri paesi, in altri settori o, semplicemente, intascati dai padroni del vapore.

Dobbiamo pretendere e lavorare per la riconversione di industrie che non hanno più mercato, che hanno magari inquinato e offeso il territorio e la salute di cittadini e lavoratori, che sono obsolete, non hanno creato positive ricadute, non hanno investito sulla formazione, sull'innovazione di macchinari e modi di produrre.  Che non hanno intessuto proficue relazioni con gli istituti di ricerca, le scuole e le università presenti nel nostro territorio.

Sobrietà, contributi mirati sotto forma di servizi e formazione, certezza di un rientro occupazionale, rispetto delle regole: è arrivato davvero il momento di cambiare e di mettere al centro del processo produttivo e degli investimenti le aziende sane e virtuose, da premiare, ma soprattutto la dignità del lavoro e la vita delle persone.

Lucia Coppola
consigliere comunale a Trento e candidata alle primarie del centro-sinistra


Le PRIMARIE
del Centrosinistra
autonomista
13 luglio 2013
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